Pubblico qui, oggi che cade il quinto anniversario della morte di Tiziano Granata, il capitolo del libro “L’uomo che parlava alle capre e altre cose così” a lui dedicato.
Ricordo che ero a Milano. Nevicava, e di brutto. Non mi capitava da anni di vedere una nevicata così bella a Milano. L’ultima volta, se non erro, era stato nel 1994: la neve mi ha sempre dato una sensazione di quiete e tranquillità. Ricordi. Il primo marzo del 2018 stavo andando in una scuola a parlare di mafia con gli studenti e tutto mi sembrava così ordinariamente tranquillo: riflettevo sulle possibili domande che mi avrebbero fatto i ragazzi, pianificavo in qualche modo il mio intervento. La notizia della morte di Tiziano Granata mi arrivò quasi per caso: una notifica di quelle che non vorresti mai avere su Facebook. Ed è stata, quella mattina, una pistolettata, un colpo di proiettile secco che mi ha fatto andare in tilt.

Morto Tiziano? Ma come? Come è possibile? Non poteva essere vero: vediamo, verifichiamo, cerchiamo meglio. Magari è una bufala. Non lo era. A quel punto un fremito, una maledetta voglia di piangere e urlare, una parola sola: bastardi. L’idea, immediata e sicura, che fosse stato ammazzato come un cane: i dettagli erano pochi, i misteri tanti. Non era così: non era stato ammazzato come un cane. “Lo hanno trovato privo di vita nella sua abitazione a Piraino in provincia di Messina” scrivevano i giornali. Privo di vita? Ammazzato, direi. Ma da chi? La porta era chiusa, tutto sembrava in ordine, nulla faceva pensare a uno scasso o a un’incursione. E probabilmente era proprio questo scenario a rendere meno credibile la morte naturale.
Tutto molto inquietante. Proprio perché si trattava di Tiziano Granata, militante di Legambiente, artefice di inchieste sue personali su inquinamento e criminalità ambientale, una specializzazione in chimica: non era solo un assistente capo della polizia che qualcuno, tra i suoi colleghi, avrebbe voluto continuasse a fare l’agente della stradale; non era solo l’altro poliziotto intervenuto, alla guida di un fuoristrada, nella notte dell’attentato a Giuseppe Antoci in quel budello di strada statale che da San Fratello porta a Cesarò, Granata era uno sbirro audace e competente che usava fare il suo lavoro in silenzio badando ai risultati.
Prima che al commissariato di Sant’Agata arrivasse Daniele Manganaro, che si era già fatto notare a Nicosia nell’ennese per le sue indagini contro la mafia rurale, per Tiziano non c’era spazio tra gli investigatori: il suo posto era sulle auto della polizia stradale e non c’era modo di farsi spostare. “Ti rendi conto- diceva alla fine di lunghe chiacchierate sul malaffare e l’assoluta mancanza di rispetto delle norme ambientali sui Nebrodi -. A qualcuno forse dà fastidio che io faccia le indagini”. Abbiamo pensato allora (e lo pensiamo tuttora) che la sua competenza desse fastidio: aveva un intuito investigativo indiscutibile.
E così, dopo il turno in autostrada Tiziano si toglieva la divisa della Stradale e cominciava a lavorare alle indagini, fuori servizio, con un fiuto incredibile per i reati ambientali. Sapendo che dietro i reati ambientali spesso se ne trovano altri: la corruzione, per esempio, ma anche la mafia, quell’impercettibile mafia di provincia che si presenta con i modi affabili di un vecchio contadino o di un muratore o semplicemente di un geometra. E bisogna fare attenzione perché in queste condizioni se tutto è mafia nulla è mafia e il rischio maggiore è quello di essere delegittimato, sfottuto da chi ti dice che sei un fissato, uno che vede nero dappertutto, e che poi che te lo fa fare di andartene nelle campagne di notte quando potresti stare con la tua fidanzata.
Tiziano tirava avanti, alla faccia di chi, tra i suoi colleghi e se vogliamo soprattutto tra certi suoi colleghi, lo osteggiava: si prendeva un permesso e andava a trovare il magistrato, a Patti, e carte alla mano era pure riuscito a ottenere di essere distaccato per approfondire le indagini: un lavoro, il suo, che ha portato al sequestro di una decina di impianti di depurazione sulla costa tirrenica, nell’area di competenza della procura della Repubblica di Patti.
Lo ha raccontato lui stesso, Tiziano, ai magistrati Fabrizio Monaco e Vito Di Giorgio che hanno indagato sull’attentato ad Antoci: “Il trasferimento (dalla Stradale al commissariato) è stato fatto a domanda – racconta Tiziano -. Ho fatto la domanda già anni prima, forse anche appena arrivato a Sant’Agata avevo fatto domanda di trasferimento ad altri uffici. E, niente, poi il trasferimento è avvenuto a dicembre 2015. Nel periodo precedente, dal 2011 mi sembra, avevo iniziato a fare delle aggregazioni, su richiesta della procura di Patti ai vari commissariati, perché avevo una delega da parte della procura per indagini in materia di reati ambientali quindi venivo distaccato di volta in volta in vari commissariati: prima abbiamo iniziato su Capo d’Orlando, poi abbiamo fatto Patti e poi, alla fine, nel 2015 siamo stati aggregati, io e un altro collega, a Sant’Agata di Militello”.
Si scoprirà dopo la sua morte che il periodo trascorso da Granata alla Stradale è stato caratterizzato da un atteggiamento ostile di qualche suo collega e che addirittura il suo trasferimento al commissariato sia stato determinato da una “Riservata”, come si chiamano le relazioni particolari della polizia, sul suo conto. Lui stesso racconterà ai magistrati di essersi fatto parecchi nemici andando a curiosare nei comportamenti di questa o quella impresa del settore ambientale, oppure di essersene fatto a causa dei sequestri eseguiti a carico di soggetti e imprese direttamente o indirettamente collegate a poliziotti.
Sembra un film, uno di quei film americani in cui il poliziotto buono è circondato da una masnada di agenti cattivi, ma è questa la realtà: Tiziano si è trovato di fronte poliziotti collegati alla politica, altri agenti collegati agli affari di famiglia (leciti per carità fino a prova contraria), a volte con personaggi equivoci e variamente collegabili ad ambienti opachi.
Era un verminaio che, secondo Tiziano, avrebbe avuto un ruolo determinante nel tentativo di screditarlo per impedirgli di fare progressi di carriera, di fare quello che gli piaceva fare: l’investigatore. Tanto che a Roma, ai piani alti del ministero dell’Interno, erano addirittura spaesati.
C’era qualcosa di strano in tutta questa vicenda che i pezzi grossi della polizia non riuscivano a spiegarsi: i poliziotti definivano Granata quasi un criminale mentre i magistrati gli affidavano le indagini e sostenevano che, nel suo campo, fosse il migliore. C’era e c’è qualcosa di strano: lo abbiamo capito tutti. Ed è sempre Granata che racconta ai magistrati qual è stato il suo torto: aver continuato a fare indagini ambientali anche fuori dal servizio andando, per esempio, a curiosare in certi impianti di smaltimento, in certe procedure di smaltimento dei rifiuti. Imbattendosi in legami parentali, in un certo mondo di mezzo del malaffare dei Nebrodi. Chissà quante volte si sarà sentito dire: chi te lo fa fare Tiziano?
Con l’arrivo di Daniele Manganaro a Sant’Agata di Militello l’aria era cambiata e Tiziano mostrava per il giovane funzionario di polizia grande stima e fiducia. “Ci si può fidare?” era la mia domanda. Da Tiziano arrivavano rassicurazioni prima verbali e poi con i fatti: arresti, denunce, sequestri. Tutti pezzi dell’inchiesta Gamma Interferon che ha provato a fare chiarezza sul mercato delle macellazioni clandestine e sugli interessi di una criminalità borderline, legata ai colletti bianchi. Diciamo che tra Tiziano e Daniele si è creata un’intesa immediata, quasi alla pari pur nel rispetto dei ruoli.
Tiziano non si fermava mai, nemmeno quando era libero dal servizio. Mi aveva parlato, qualche giorno prima di quella morte assurda e misteriosa, di una inchiesta su una discarica nel territorio del Comune di Mistretta. Una inchiesta che gli prendeva tempo, che lo impegnava non poco. Anzi che li impegnava perché insieme a Tiziano c’era Rino Todaro, un altro poliziotto di valore, un altro di quella che i giornali hanno definito la squadra dei vegetariani del commissariato di Sant’Agata di Militello, proprio per quell’inchiesta sulla macellazione abusiva di carni e su una serie di indagini su carni infette e altri affari nella filiera sporca dell’agroalimentare sui Nebrodi. Me li immagino, Tiziano e Rino, con le loro auto nelle campagne dei Nebrodi a notte fonda e me li immagino fare verifiche in questo o quell’altro sito sospetto. Accomunati dall’amore per il loro lavoro e dallo stesso destino, maledetto: a 24 ore di distanza dalla morte di Tiziano si è spento Rino Todaro. Leucemia fulminante, dicono. Morti “naturali” mai accettate né dai familiari né dagli amici di Tiziano e Rino. “Me li hanno ammazzati” è stata la frase del vicequestore Daniele Manganaro quando ci siamo incontrati. Se non ricordo male è stato alla commemorazione di Tiziano: Manganaro mi è sembrato parecchio turbato ma non ha voluto aggiungere altro. “Un giorno ne parleremo” disse. Mentre io continuavo a chiedere e a chiedermi: perché? Come? Ma soprattutto: c’è un legame con l’attentato a Giuseppe Antoci oppure stavano indagando su altro, qualcosa di grosso, qualcosa di grande e di intoccabile?
Tiziano era un poliziotto gentile, non alzava mai la voce, e gli piaceva andare controvento: avevamo chiamato così, “Parole controvento”, la manifestazione che abbiamo organizzato a Piraino per parlare di mafie, colletti bianchi, criminalità ambientale, lotta alla mafia. Ne era venuta fuori una bella manifestazione, pur tra mille difficoltà. Manganaro, per esempio, non ha potuto partecipare alla presentazione del mio libro sul mutamento delle mafie, dove si fa cenno all’inchiesta Gamma Interferon che potremmo definire una vasta operazione di bonifica del settore delle carni sui Nebrodi e al sistema mafioso sui Nebrodi. Nessuna autorizzazione a parlare in pubblico per il vicequestore. Ricordo quanto Tiziano ci rimase male perché quella poteva essere l’occasione per raccontare le mafie dei Nebrodi, l’opacità di certi comportamenti, l’abitudine di gruppi e soggetti a fare soldi in puro spirito parassitario. Penso alle abitudini di questo giovane poliziotto, al suo metodo, alla sua caparbietà e non riesco a darmi pace. Non so da dove cominciare, però, pur avendo ancora chiari i suoi turbamenti, la sua prudenza, il suo agire felpato dei giorni che hanno preceduto la sua morte. Vado molto a memoria ma ricordo chiaramente che la sua voce, già di solito flebile, si era fatta ancora più bassa: al telefono, spesso, non riuscivo a sentirlo.
Ci sentivamo su whatsapp e non avevo memorizzato il suo numero: antipatiche precauzioni e forse persino eccessive. Eravamo d’accordo su un una questione: la mafia, sui Nebrodi, affonda radici profonde in quello che oggi possiamo ben definire mondo di mezzo e cioè tra le professioni, tra i colletti bianchi. Un concorso esterno conosciuto e tollerato per anni che ha agito al tempo della gestione degli appalti e del cemento e che continua ad agire ora che l’affare è rappresentato dall’agricoltura in quest’area della provincia di Messina, i Nebrodi, che è stata solo terra di conquista.
Ecco perché, ora, mi suonano stranamente familiari che preoccupazioni espresse da Lorena, la compagna di Tiziano, la donna di cui lui andava fiero: “Tiziano era sempre preoccupato – racconta Lorena – e poi comunque durante la sua attività lavorativa, ancora prima dell’attentato ad Antoci, Tiziano mi faceva i nomi di alcune persone che ce l’avevano con lui, che gli ostacolavano la carriera, solo perché lui faceva semplicemente il suo dovere, e Tiziano il suo dovere lo faceva. Lui diceva che comunque bisognava stare attenti e faceva attenzione a dove si muoveva, nel senso che si guardava sempre attorno”.
Magari, in quel momento, si poteva pensare ci fosse una certa esagerazione. Ma quanto poi è accaduto conferma che Tiziano aveva buoni motivi per essere preoccupato. Di che umore era questo poliziotto negli ultimi giorni della sua vita? Cosa faceva? Dove andava? Non lo sappiamo e l’inchiesta sulla sua morte potrebbe, a meno di clamorose novità, potrebbe non rivelarlo mai. Solo i testimoni possono dire qualcosa.
Lorena, per esempio, racconta che Tiziano non stava bene già da qualche giorno e avanza più di un dubbio sulla morte del suo compagno: “C’è un vuoto nella giornata del 28 febbraio, in cui non si hanno notizie di Tiziano, del suo telefono. Se hai un arresto cardiocircolatorio, non rimani 24 ore comatoso nel letto. Ti puoi comunque muovere, riesci a prendere il telefono, fino a quando c’è l’exitus. Io ho sempre pensato a un avvelenamento. Perché nel periodo in cui ero scesa in precedenza, quando festeggiammo il suo compleanno che fece quarant’anni, Tiziano senza mangiare così doveva evacuare velocemente, andare in bagno”.
Tiziano aveva compiuto quarant’anni il 14 febbraio, una quindicina di giorni prima di morire. Tutto molto strano e anche in questo caso torna la domanda: cu fu? I magistrati non hanno, per il momento, dubbi: il destino, balordo e crudele. Morte naturale. Non mancano i punti oscuri sulle ultime ore di vita di Tiziano Granata. Li sottolinea Lorena: “L’allarme che c’era qualcosa che non andava l’ho lanciato io da Genova – racconta – chiamando suo fratello, perché comunque non sentendoci più all’improvviso, per me c’era qualcosa che non andava. La sera della morte Tiziano mi ha risposto al telefono, per tutta la giornata però il telefono era chiuso o mi rispondeva la segreteria quindi non so dire se era chiuso o meno perché comunque sono sempre linee telefoniche, però la telefonata mi è partita più volte la sera, intorno alle 20-20,28, ed ero io che staccavo la chiamata, perché non sentivo parlare dall’altro lato. Io telefonavo a Tiziano e nel mio telefono risultava che avevano risposto dall’altro lato, i minuti scorrevano e non c’era nessuna voce. Allora io riattaccai e rifeci il numero per altre quattro volte e per quattro volte mi è stato risposto. Non ho sentito niente dall’altro lato. Ero io che staccavo dopo 25 o 30 secondi”. Tiziano, secondo le analisi fatte su ordine della magistratura, è morto nella notte tra il 28 febbraio e il primo marzo, dopo la mezzanotte.
Per tutta la sera del 28 Lorena ha provato a parlare con lui: “Tiziano, pronto, ci sei?”. “Io sono convinta che lui mi abbia risposto – racconta Lorena – però non risulta in nessun posto che sono state fatte delle indagini per quanto riguarda le celle telefoniche. Mi hanno risposto dal telefono di Tiziano e io ero convinta che fosse lui perché chiedevo: Tiziano, Tiziano, ci sei, ci sei?”. Tutto molto strano.
Ci sono le ombre in questa storia e i sospetti. Una vicenda divenuta impalpabile mentre concrete erano le paure di Tiziano e concreti erano i suoi tanti nemici. L’ultimo ad aggiungersi in ordine di tempo è stato un poliziotto che per lui era sempre stato un esempio da seguire, un modello: Mario Ceraolo, oggi avvocato dopo essere andato in pensione, che con Tiziano era anche imparentato anche se, come si suol dire, “alla lontana”. Una inimicizia che si incrocia con la verità e le bugie su quella maledetta notte dell’attentato ad Antoci, con confidenze vere o presunte, con i veleni che da subito hanno caratterizzato quella vicenda. E tutto arriva a far parte di una trama oscura in cui un poliziotto come Ceraolo, molto abituato a discutere con i mafiosi e i confidenti, non immune da scivoloni pazzeschi, comincia a recitare una parte in commedia come si suol dire. Perché lo fa? “Me lo hanno chiesto i magistrati” risponde Ceraolo. Ma i magistrati non confermano, anzi tutt’altro: smentiscono e ridimensionano la portata del suo racconto.
Perché lo fa? “Per gelosie professionali – dicono in tanti -. Aveva paura che la promozione a vicequestore andasse a Manganaro e non a lui e quindi si adopera per screditare la squadra del commissario di Sant’Agata di Militello e l’attentato stesso”. Un po’ poco, per la verità, e anche in questo caso resta il dubbio che non sia stato raccontato tutto, che vi possano essere altre verità magari molto scomode. Ceraolo è uno dei primi a mettere in dubbio la natura mafiosa dell’attentato, raccogliendo dai suoi confidenti della mafia barcellonese l’ormai divenuta famosa frase: “E’ una questione politica, una babbaria”.
Qualcuno, anzi più di uno, sostiene se ne andasse in giro a offrire carte e informazioni per sostenere la tesi di un attentato farlocco, qualcun altro sospetta ci sia lui dietro gli articoli pubblicati dal settimanale L’Espresso e da Centonove. Sospetti? Verità? Cialtronerie di vario genere? Sta di fatto che Ceraolo a un certo punto se ne va dai magistrati e racconta di aver parlato con Tiziano Granata il quale gli avrebbe raccontato cose che andavano in direzione opposta alla versione ufficiale sulla notte dell’attentato. Una versione dei fatti data da Ceraolo che Granata non ha mai confermato, anzi ha seccamente smentito: Tiziano, per dirla tutta, ha anche querelato Ceraolo.
Una vicenda che lo ha molto amareggiato di cui parlava sussurrando. Era paura? Forse sì. Sicuramente sì, sostiene Manganaro: “Aveva timore, Tiziano aveva timore di questa persona. Timori di ritorsioni. Aveva proprio paura che gli potesse fare qualcosa di fisico. Me lo ha confidato” ha raccontato il commissario Manganaro all’antimafia regionale.
Per Ceraolo, ovviamente, le cose stanno diversamente: “Tiziano Granata – dice – non avrebbe mai detto una cosa del genere. Primo: non so esattamente dove abita Granata, so il quartiere, la zona ma non so neanche la casa. Secondo: gli incontri con Tiziano avvenivano occasionalmente nella frazione Gliaca di Piraino, di dove siamo originari entrambi, nei pressi del bar o nei pressi della chiesa. Quelle di Manganaro è un’attribuzione anche piuttosto grave. A me invece risulta che Tiziano Granata fosse molto condizionato dalla presenza del dottore Manganaro”.
Ancora una volta versioni contrastanti anche se io stesso ho sentito dalla bocca di Tiziano parole sprezzanti nei confronti di Ceraolo. Chi dice la verità? È questo l’assurdo leit motiv di questa storia. I fatti, così come vissuti, a un certo punto diventano epifenomeni, apparenze, discutibili e discussi.
Una vicenda pirandelliana, in tutta la sua drammaticità: due poliziotti sono morti e le coincidenze sono davvero inquietanti. Una macchina, quella su cui viaggiava Antoci quella maledetta notte, ha buchi grossi ed evidenti. Qualcuno ha sparato e Tiziano ne era sicuro ma la sua verità oggi, purtroppo, non conta: Tiziano è morto e non potrà più ripeterla come ha fatto tante volte. Resta la sua verità, quella di un morto, mentre i vivi continuano a interrogarsi sulla trama di questo giallo siciliano.
C’entra o non c’entra la gelosia professionale nel racconto che Ceraolo, oggi avvocato, fa della telefonata e dei colloqui avuti con Tiziano Granata? Non vogliamo certo pensare si sia trattato di depistaggio: non aveva alcun motivo Ceraolo a spingere le cose in altra direzione rispetto all’attentato di mafia. Alla domanda: perché lo avrebbe fatto? Granata risponde: non lo so. Il verbale di interrogatorio cui viene sottoposto dà la misura di un uomo che si è coricato eroe e si è svegliato sotto accusa, che deve difendersi anche dagli anonimi, che sta indagando per scoprire chi, tra i poliziotti, ha passato le carte per la scrittura di un anonimo che lui ritiene diffamatorio e offensivo. Il racconto che Ceraolo fa di quella telefonata lo offende ma non lo sorprende, mentre continua a ripetere ai magistrati sempre la stessa versione dei fatti: lui quella notte ha visto un uomo o forse due, in tuta mimetica. Mentre i magistrati provano a insinuare il dubbio che invece la relazione di servizio fatta subito dopo l’attentato possa essere stata concordata con Daniele Manganaro, che gli uomini di cui lui parla non ci siano mai stati, che le ombre fuggite nel bosco siano praticamente inventate e che i due poliziotti (Tiziano e Daniele) siano arrivati a cose già fatte, ad attentato già avvenuto e che Daniele abbia detto: “Sparali anche tu due colpi”. Giusto per fare scena, per prendersi un merito. Insomma na pupiata, na babbaria come dice Ceraolo riferendo le parole dei suoi confidenti. Ma una pupiata con tanti protagonisti: Tiziano, Daniele, i due uomini della scorta. Non dicono i magistrati che l’attentato non ci fu ma provocano, sostenendo quasi che i due poliziotti del commissariato di Sant’Agata siano arrivati a cose già fatte.
Del resto non è facile smentire tre buchi nell’automobile blindata su cui viaggiava Antoci. Ma le versioni su quanto è accaduto quella notte, almeno le versioni di Manganaro e Granata, coincidono. Anche troppo, dicono i detrattori, quasi a voler sostenere ce siano il frutto di una elaborazione concordata tra i due o addirittura subita da Granata che, invece, avrebbe raccontato la verità a Ceraolo. Ad alimentare dubbi, dicerie e calunnie l’assenza di novità sul fronte dell’inchiesta giudiziaria. Eppure ci sono verità che si muovono su vie che possiamo chiamare carsiche: pezzi di verità che è persino difficile mettere insieme, collegare, sistemare come in un puzzle.
La paura spinge chi sa a tacere perché il rumore attorno a questa vicenda è stato enorme, eccessivo. In questo caso chi muore giace e chi vive non si dà pace ma non ha molto cui aggrapparsi. Tutti sanno che la verità sulla morte di Tiziano va cercata nella sua attività anarchica di investigatore: in quale incubo si era cacciato?
Qualche giornale online (non dei migliori per la verità) ha collegato la vicenda dell’assistente capo Granata alla discarica di Mazzarrà Sant’Andrea in provincia di Messina ma solo per dare un colpettino di fango all’immagine di Sonia Alfano, la figlia del giornalista Peppe ammazzato dalla mafia barcellonese, nominata da Crocetta al vertice della società Tirreno Ambiente che gestisce quella discarica. E se invece ci fosse veramente un collegamento con quella discarica? Io ce lo vedo Tiziano che di notte, con l’attrezzatura di sua proprietà, se ne va a indagare nel cuore della discarica, a cercare chissà cosa o cose che non vogliamo nemmeno immaginare. Senza autorizzazione del magistrato? Può essere così come può anche essere che vi fosse stato qualche passaggio informale.
Non lo sapremo mai: chi poteva dircelo è morto. E chi magari sa è stato messo in condizione di non nuocere e non ha alcuna voglia di parlare di una storia chiusa. A qualcuno Tiziano aveva confidato di lavorare a un’inchiesta particolare sul fronte delle discariche. Abbiamo sempre pensato che la discarica cui si riferiva si trovasse sui Nebrodi, in un’area interna sopra Santo Stefano di Camastra. E invece no, non era quella la discarica cui Tiziano stava lavorando. Forse era un’altra, più importante, più compromessa, da tempo sotto osservazione da parte della magistratura antimafia di Messina. Tanti, troppi forse in questa vicenda. Come l’altro forse, di un evento non confermato: la notte dell’attentato una volante si trovò a controllare due uomini in auto in tuta mimetica, due che sembravano dei cacciatori, due facce poco conosciute evidentemente. Fecero un controllo sommario e li lasciarono andare: non sapevano di certo che potevano essere due, in tuta mimetica, ben nascosti nel bosco ad aver sparato contro l’auto dell’allora presidente del Parco dei Nebrodi. E il profilo potrebbe corrispondere a quello degli uomini che hanno sparato contro la macchina di Antoci, eroe per caso o per necessità, nominato da Rosario Crocetta presidente del più grande parco naturale della Sicilia che si estende per 86mila ettari, un ente che “governa” il territorio di 24 comuni con un centinaio di dipendenti, da sempre considerato da tutti i governi regionali, da quando esiste, un ente da giocare nello scambio dei posti di sottogoverno. Un poltronificio.
Anche nel caso della notizia sul mancato fermo di due uomini in mimetica siamo di fronte a voci che corrono, a confidenze fatte dallo stesso Tiziano a qualche amico o a persona a lui molto vicina. Siamo nel cuore di una storia assurda con un investigatore instancabile e competente morto troppo giovane. Ci può essere lo zampino di uomini abituati ad agire nell’ombra nella morte di Tiziano? Certo che ci può essere e ve ne sarebbero persino tante ragioni ma l’autopsia è arrivata a un “verdetto” definitivo e dunque, in questa fase, inconfutabile: è morto di morte naturale. E lo andiamo a iscrivere nell’elenco di tanti uomini dello Stato morti di infarto o di arresto cardiaco: uomini dello Stato magari in precedenza impegnati in attività di servizio molto delicate, segrete, coperte oppure testimoni scomodi di vicende che gli apparati più o meno deviati volevano coprire. Tiziano e Rino Todaro. Tutti e due cacciati in un affare più grande di loro, all’insaputa del vicequestore Daniele Manganaro che mai e poi mai ne avrebbe dato l’autorizzazione. “Me li hanno uccisi” è stato il commento di Manganaro quando ci siamo incontrati, in una sera calda di primavera a Sant’Agata di Militello. Una serata in cui Lorena Ricciardello, compagna di Tiziano, di fronte a una folla attonita ha urlato la sua rabbia e paragonato la morte di Tiziano, il poliziotto gentile, a quella di un altro uomo dello Stato che aveva scoperto le navi dei veleni in Calabria. L’intera vicenda è raccapricciante così come è raccapricciante il livello di cinismo scoperto da Granata nel corso dell’inchiesta che ha poi portato, tra mille difficoltà e episodi strani, all’operazione Gamma Interferon, che prende il nome dal nome dei farmaci usati dagli allevatori per dopare gli animali, per far apparire sane bestie consumate dalla malattia.
A Palermo la si potrebbe chiamare mafia o associazione criminale con l’aggravante di mafia, da queste parti resta acqua fresca perché sui Nebrodi la mafia è un fenomeno che riguarda tre o quattro famiglie di Tortorici. Ne parleremo più avanti di questa mafia montanara, di certe cene nei casolari in cui si mangia e si beve allegramente: bravi cittadini, criminali, politici e chi vuole e arriva è il benvenuto. Tranne i cornuti della legalità e dell’applicazione delle leggi antimafia. Era così anche negli anni Ottanta quando in certe mangiate di campagna si discuteva come dividersi i subappalti. Tiziano queste cose le sapeva. Resta sibillina la frase del presidente della commissione regionale Antimafia Claudio Fava che all’attentato ha dedicato una relazione suscitando non poche perplessità e reazioni negative. Non ho mai capito cosa volesse dire Fava quando mi ha risposto che forse Tiziano era morto perché sapeva troppo. Sapeva troppo dell’attentato? Sospettava? Ma a noi ha sempre e solo riferito una versione. Tiziano aveva una sola parola.
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