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Strage di Via D’Amelio, non fu solo mafia: da Caltanissetta atto d’accusa alle istituzioni per il depistaggio e non solo

Strage di Via D’Amelio, non fu solo mafia. Lo si evince da quelle che chiamano motivazioni di una sentenza già emessa, ma di fatto sono un duro atto d’accusa per quella che possiamo definire la “filiera istituzionale” che ha consentito se non favorito il depistaggio delle indagini sulla strage di Via d’Amelio del 19 luglio 1992 in cui morirono il magistrato Paolo Borsellino e cinque agenti della scorta. Non solo: apparati esterni a Cosa nostra parteciparono alla preparazione dell’attentato frutto di una convergenza di interessi tra mafia e altre entità. Due punti fermi contenuti nelle motivazioni della sentenza dei giudici di Caltanissetta del 12 luglio del 2022 che ha dichiarato prescritte le accuse contestate a Mario Bo e Fabrizio Mattei, due dei tre poliziotti finiti sotto processo per l’inquinamento dell’inchiesta, e ha assolto il terzo imputato, Michele Ribaudo. Erano imputati di calunnia aggravata dall’avere favorito la mafia.

Strage di Via D’Amelio, la famiglia Borsellino: “Sentenza importante”

Una “sentenza importante perché, al di là degli aspetti connessi alla calunnia che sembrano blindati, è la prima sentenza, in 30 anni, che dice chiaramente che a questa strage hanno concorso, moralmente e materialmente, soggetti appartenenti a corpi istituzionali dello Stato italiano” ha detto all’agenzia di stampa Adnkronos, a nome della famiglia Borsellino, l’avvocato Fabio Trizzino, genero del giudice ucciso in Via D’Amelio e legale di parte civile nel processo depistaggio. Mentre il deputato di Fratelli d’Italia Carolina Varchi, il cui nome è tra i favoriti per la presidenza della commissione nazionale Antimafia, è netta: “Nelle oltre mille pagine di motivazioni – dice -, i giudici di Caltanissetta hanno messo nero su bianco i tradimenti, i depistaggi, le amnesie, le sgrammaticature istituzionali e tutto ciò che ha contribuito al più grosso depistaggio della storia d’Italia. Questo è uno dei casi in cui il potere d’inchiesta del Parlamento deve soccorrere il potere d’accertamento della verità processuale che è proprio della magistratura”.

L'uomo che parlava alle capre e altre cose così

E in effetti il quadro sulle indagini per la Strage di Via D’Amelio che ne viene fuori è disarmante. Lo aveva detto qualche tempo fa l’avvocato Fabio Repici (trovate qui le sue dichiarazioni), lo conferma oggi la corte di Caltanissetta. Un punto fermo: non è stata Cosa nostra a fare sparire, dopo la strage di via D’Amelio, l’agenda rossa di Paolo Borsellino che è stata prelevata nell’immediatezza della strage di Via D’Amelio. “A meno di non ipotizzare scenari inverosimili di appartenenti a Cosa nostra che si aggirano in mezzo a decine di appartenenti alle forze dell’ordine, può ritenersi certo che la sparizione dell’agenda rossa non è riconducibile a una attività materiale di Cosa nostra. Ne discendono due ulteriori logiche conseguenze – scrivono i giudici – In primo luogo, l’appartenenza istituzionale di chi ebbe a sottrarre materialmente l’agenda. Gli elementi in capo non consentono l’esatta individuazione della persona fisica che procedette all’asportazione dell’agenda senza cadere nella pletora delle alternative logicamente possibili ma è indubbio che può essersi trattato solo di chi, per funzioni ricoperte, poteva intervenire indisturbato in quel determinato contesto spazio-temporale e per conoscenze pregresse sapeva cosa era necessario e opportuno sottrarre. “Oltre ai tempi della strage, oggettivamente ‘distonici’ rispetto all’interesse di Cosa nostra, vi sono ulteriori elementi che inducono a ritenere asfittica la tesi che si arresta al riconoscimento della ‘paternità mafiosa’ dell’attentato di via D’Amelio e della sua riconducibilità alla strategia stragista deliberata da Cosa nostra, prima di tutto, come ‘risposta’ all’esito del maxiprocesso e ‘resa dei conti’ con i suoi nemici storici”.

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Ma andiamo con ordine, per comprendere meglio la portata di queste motivazioni. Lo facciamo seguendo la linea dei nomi, dei protagonisti, di coloro che sapevano e non hanno parlato e di chi invece si è confuso, non ricorda pur essendo presente e avendo avuto ruolo di protagonista il giorno della strage di Via D’Amelio, il 19 luglio 1992.

Pietro Giammanco e l’inadeguata protezione di Paolo Borsellino

Partiamo dalla fase che precedette la strage, in quei 57 giorni che la separano dalla strage di Capaci in cui morì Giovanni Falcone ma anche prima. E partiamo da Pietro Giammanco, il capo della procura di Palermo che fece di tutto per emarginare e isolare Paolo Borsellino. Giammanco, scrivono i giudici nisseni, “mortificò la storia professionale” di Paolo Borsellino “imbrigliandone le iniziative investigative”. “Si pensi alla circostanza che egli aveva impedito a Borsellino di sentire Buscetta dopo l’omicidio Lima, e che non gli conferì la delega a indagare su Palermo fino alla mattina del 19 luglio del 1992” scrivono i giudici di Caltanissetta nelle motivazioni della sentenza del processo sul depistaggio. “Inoltre la sua figura – scrivono i giudici -. non può non legarsi alla certamente inadeguata protezione di Paolo Borsellino”.

Nino Giuffré e le dichiarazioni sulla partecipazione di soggetti esterni a Cosa nostra

“Non vi è dubbio che le dichiarazioni di Antonino Giuffrè in ordine ai sondaggi fatti da Riina, prima di procedere agli attentati, in ambienti esterni a Cosa nostra, l’anomala tempistica della strage di Via d’Amelio, a soli 57 giorni da Capaci, la riferita presenza del terzo estraneo al momento della consegna della Fiat 126, sabato 18 luglio, la sparizione dell’agenda rossa di Borsellino, l’intercettazione tra Mario Santo Di Matteo e la moglie il 14 dicembre 1993 sugli infiltrati in via D’Amelio, sono tutti elementi che possono ritenersi univocamente orientati nel senso di certificare la necessità per soggetti esterni a Cosa nostra di intervenire per ‘alterare’ il quadro delle investigazioni evitando che si potesse indagare efficacemente sulle matrici non mafiose della strage” scrivono i giudici nelle motivazioni della sentenza del processo sul depistaggio Borsellino. “In sintesi -per i giudici – movente della strage e finalità criminale di tutte le iniziative volte allo sviamento delle indagini su via D’Amelio sono intimamente connessi”.

Il Sisde, i depistaggi e Bruno Contrada “diversivo giusto” per sviare le indagini

Il Sisde partecipò “impropriamente” alle indagini sulla strage di via D’Amelio. Lo scrivono i giudici del processo sul depistaggio Borsellino nelle motivazioni della sentenza, visionate dall’Adnkronos. “Dell’impropria partecipazione del Sisde alle indagini non era al corrente solo il procuratore Tinebra (deceduto nel 2017 ndr) ma anche il vertice dei servizi di sicurezza”. “E’ legittimo ritenere che il capo della Polizia e i vertici dei servizi segreti non potessero assumere una iniziativa così ‘extra-ordinem’ senza un minimo avallo istituzionale che non poteva che provenire dall’organo di vertice politico dell’epoca”. I giudici parlano di una “irrituale collaborazione”. L’allora Procuratore aggiunto Francesco Paolo Giordano “ha escluso di essere a conoscenza di tale collaborazione con il Sisde ma di avere visto in una sola occasione Contrada nello studio del dottor Tinebra”. E a proposito di Contrada i giudici scrivono: “Ci si chiede perché in un arco temporale prossimo alla strage ci sia dedicati a diffondere la notizia, poi rivelatasi falsa, della presenza di Bruno Contrada in via D’Amelio poco dopo l’esplosione? A vantaggio di chi? Alla luce di tutte le circostanze, si ritiene che se ne giovò chi aveva tutto l’interesse a far sì che le matrici non mafiose della strage ( che si aggiungono, come già detto a quella mafiosa) di Via D’Amelio non venissero svelate nella loro reale consistenza”. E poi: “Come ben evidenziato da talune parti civili Bruno Contrada era “il diversivo giusto”: un soggetto -nel frattempo caduto in disgrazia per le confidenze rivelate da Gaspare Mutolo al Dottor Borsellino circa una contiguità del Contrada medesimo con l’organizzazione mafiosa – da collocare immediatamente sulla scena del crimine subito dopo l’esplosione”.

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Il ministro dell’Interno Mancino e l’avallo istituzionale alle indagini da parte del Sisde

“Dell’impropria partecipazione del Sisde alle indagini non era al corrente solo il procuratore Tinebra (che pure la sollecitò), ma anche il vertice dei servizi di sicurezza. E’ legittimo ritenere che il capo della Polizia di Stato e i vertici dei servizi segreti non potessero assumere un’iniziativa senza un minimo avallo istituzionale che non poteva che provenire dall’organo di vertice politico dell’epoca, cioè l’allora ministro dell’Interno Mancino”, spiegano. Il collegio sottolinea che Tinebra non sarebbe stato il solo magistrato a sapere del ruolo degli 007 nell’inchiesta. “Sarebbe inspiegabile sul piano della logica – dicono – ritenere che Tinebra abbia avviato solitariamente la collaborazione con il Sisde; se veramente così fosse stato egli avrebbe tenuto il più possibile celati tali contatti mantenendo riservati i colloqui e non certo promuovendo la partecipazione dei magistrati dell’ufficio a riunioni o pranzi con esponenti del Servizio”. “È probabile – concludono – che pur essendo i magistrati dell’ufficio pienamente a conoscenza di tale collaborazione nessuno ritenne, anche in ragione del fatto che si trattava di un’iniziativa promossa dal capo dell’ufficio, di sollevare (e soprattutto registrare, lasciandone traccia scritta) obiezioni rispetto ad una collaborazione con il Sisde che non era consentita”.

Vincenzo Scarantino, bugiardo di professione

L’ex falso pentito Vincenzo Scarantino “è un mentitore di professione”. E’ un “soggetto che mente dal 1994 e che, a distanza di quasi 30 anni, ha deliberatamente deciso di continuare a offrire ricostruzioni arbitrarie, ondivaghe e false”. Ecco come i giudici del Tribunale di Caltanissetta, del processo sul depistaggio Borsellino, descrivono il falso collaboratore Scarantino. I giudici parlano di “costante nebulosità del narrato di Vincenzo Scarantino”. “Anche nel procedimento ha prospettato una ricostruzione dei fatti che non può coincidere con la realtà, soprattutto nella misura in cui ha attribuito in toto ad Arnaldo La Barbera in primis e ai suoi uomini poi, la paternità di tutta una serie di dichiarazioni accusatorie che altro non potevano essere se non il frutto dei margini di autonomia che per scelta o per necessità gli vennero lasciati”. Per i giudici “la tendenza al mendacio condiziona irreversibilmente la possibilità di valorizzare le sue dichiarazioni accusatorie nei confronti degli imputati rispetto alle quali è improponibile pensare di potere estrarre, con la certezza che richiede l’odierna sede, elementi di verità”.

Santino Di Matteo, un pentito che non ha raccontato tutto

“Si ritiene che Di Matteo Mario Santo sia a conoscenza di altri particolari riguardanti le stragi, che questi particolari riguardano soggetti istituzionali, e che egli non abbia inteso e tuttora non intenda riferire per un timore evidentemente ancora attuale per la vita propria e dei suoi familiari”. A scriverlo nelle motivazioni della sentenza sul depistaggio Borsellino sono i giudici del Tribunale di Caltanissetta. “È evidente come Mario Santo Di Matteo e Francesca Castellese non riferiscano sul tema i fatti di cui sono a conoscenza e la circostanza che non lo facciano da venticinque anni, lungi dall’essere conferma di ciò che essi sostengono, prova solo la loro pervicacia nell’omissione di riferire”, dicono. “E tale dato non solo è innegabile ma è potenziato dal fatto che si è di fronte ad una costante negazione assoluta senza spiegazioni, tanto è vero che, a fronte delle contestazioni del P.M., Mario Santo Di Matteo non risponde – sviando il discorso sugli altri argomenti di taglio emozionale legati alla deprivazione genitoriale derivante dalla scomparsa del figlio – limitandosi a negare e senza fornire alcuna ricostruzione alternativa del significato dell’intercettazione”.

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Giuseppe Ayala e l’inspiegabile il numero di mutamenti di versione

I giudici nisseni non risparmiano critiche ad alcuni testimoni sentiti nel corso degli anni al processo sul depistaggio Borsellino, i giudici estensori delle motivazioni della sentenza emessa nel luglio del 2022. Testimoni che “consegnano in quadro per niente chiaro, fatto di insanabili contraddizioni tra le varie versioni, tra l’altro più volte rivedute e stravolte, rese dai protagonisti della vicenda che non permettono una lettura certa degli eventi aumentando la fallacia di qualsivoglia conclusione tratta sulla sola base della combinazione tra le varie testimonianze”, dicono. In particolare, i giudici nisseni se la prendono con l’ex giudice Giuseppe Ayala. “Pur comprendendone lo stato emotivo profondamente alterato appare inspiegabile il numero di mutamenti di versione rese nel corso degli anni in ordine alla medesima vicenda”. Per i giudici “restano insondabili le ragioni di un numero così elevato di cambi di versione, peraltro su plurime circostanze del narrato”. Secondo i giudici nisseni, Paolo Borsellino, “si sentì tradito da un soggetto inserito in un contesto istituzionale”. Nel processo sul depistaggio sulla strage di Via D’Amelio si respirava “un clima di diffusa omertà istituzionale” dicono i giudici del Tribunale di Caltanissetta che hanno scritto le motivazioni della sentenza emessa il 12 luglio del 2022. I giudici hanno inviato gli atti du quattro ex poliziotti che hanno testimoniato alla Procura. a Loro parere gli ex appartenenti al gruppo Falcone e Borsellino “hanno reso dichiarazioni insincere”. Si tratta di Maurizio Zerilli, “con i suoi 121 non ricordo” in aula, di Vincenzo Maniscaldi, Angelo Tedesco, definito “reticente”, e Giuseppe Di Gangi, che avrebbe reso dichiarazioni “insincere”.

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